Lamborghini, comunicazione e innovazione
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In viaggio con Tim Bravo, direttore comunicazione di Automobili Lamborghini, sulle tante strade che la comunicazione può percorrere
Tim Bravo, direttore della comunicazione in Automobili Lamborghini dal 2021 ha precedentemente ricoperto ruoli di crescente responsabilità in Seat, Porsche Germania, Porsche Latino America e Bugatti. Lo abbiamo incontrato per approfondire la sua interpretazione del ruolo della comunicazione e dei comunicatori in uno scenario caratterizzato dal susseguirsi di cambiamenti radicali.
Come è cambiata la comunicazione nel tempo?
«La necessità di comunicare è sempre esistita e di fatto non è mai cambiata. L’ essere umano ha sempre comunicato con i mezzi che aveva a disposizione: originariamente i disegni e il canto, e di seguito con la scrittura, fino ad arrivare ad oggi, dove ai mezzi tradizionali si uniscono quelli digitali.
Possiamo, quindi, affermare che è cambiato solo il modo di comunicare, che progredisce di pari passo all’evoluzione dei mezzi disponibili. Certamente la velocità di questa evoluzione è ora incalzante come mai prima. Quando mi sono affacciato al modo dell’automotive, solo quattordici anni fa, i social media erano appena nati e si utilizzavano unicamente a livello personale.
I video erano prodotti solo da professionisti e non facevano parte della comunicazione quotidiana, basata sulla carta stampata e sulle televisioni tradizionali. Nell’ultimo decennio la quota di informazione prodotta dal giornalismo tradizionale si è molto ridotta per lasciare spazio a figure come il content creator e l’influencer, inizialmente ignorati e non inclusi nel parterre dei comunicatori accreditati.
Nel contesto attuale, inoltre, è bene non dimenticare il rischio della comunicazione negativa che si genera in particolare sulle piattaforme digitali: quindi non è necessario solo generare buoni contenuti. Anche evitare una comunicazione negativa è una comunicazione positiva».
È accertato che il tempo di attenzione a una notizia sia notevolmente diminuito: questo può influire sulla qualità della comunicazione?
«I nuovi strumenti a disposizione hanno modificato il modo in cui fruiamo delle informazioni: con la diffusione di WhatsApp, per esempio, molte conversazioni si sono trasferite dalla telefonata alla messagistica. Contemporaneamente l’esistenza di svariati canali di comunicazione genera la FOMO (fear of missing out), poiché siamo convinti che se dedichiamo troppo tempo a un’unica notizia rischiamo di perderne altre.
Il risultato è il rischio di avere conoscenze solo superficiali su una quantità enorme di differenti argomenti. Apparentemente questo può facilitare il lavoro del comunicatore, poiché i lettori veloci non sono particolarmente critici.
Per non lasciare che la qualità si impoverisca, chi crea le informazioni non deve abbassare lo standard, ma la vera responsabilità del mantenimento della qualità è di chi fruisce delle notizie; è necessaria l’educazione dell’utente, affinché sia in grado di gestire l’enorme quantità di dati disponibili, a prescindere dal mezzo o dalla tecnologia che li hanno generati.
In questa consapevolezza possiamo anche includere la valutazione dell’attendibilità delle notizie lette, considerando che in un panorama popolato da svariate fonti è necessario verificare la veridicità dei messaggi, senza essere stimolati a tenere in considerazione solo quelli che si presentano in modi sfacciati e orientati ad attrarre l’attenzione».
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale rischia di spersonalizzare o peggiorare i messaggi dei comunicatori?
«Il punto non è se accettare o no l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella comunicazione: opporsi a un cambiamento non è una strategia vincente. L’approccio deve essere quello di integrare l’innovazione tecnologica al meglio.
Certamente non possiamo pensare di affidare a ChatGPT la scrittura di tutti i testi, ma utilizzarla per compiti ripetitivi oppure per la stesura di una prima bozza su cui lavorare lascia più tempo per integrare con le proprie competenze e i punti di vista personali, con il risultato di ottenere una qualità complessiva più alta oppure un maggior numero di informazioni sempre di buona qualità.
Un altro aspetto che genera preoccupazione con l’introduzione dell’intelligenza artificiale è la possibilità che alcuni lavori possano cambiare radicalmente oppure scomparire. Un esempio nel nostro settore può essere quello dell’interprete, e sicuramente il rischio esiste. L’unico modo sensato di reagire è quello di valutare criticamente le prospettive future di alcune professioni e prepararsi per reinventare il proprio ruolo in sintonia con il mutato scenario».
Immagini o parole per comunicare oggi?
«Oggettivamente l’importanza dei testi rispetto alle immagini è decisamente diminuita. Io ho una formazione umanistica, ho studiato la comunicazione nel suo aspetto narrativo, approfondendo in particolare maniera il mondo del cinema, e credo che un’immagine abbia una forza maggiore rispetto alla parola, e sia più adatta a focalizzare l’attenzione. Ma amo anche le parole, al punto che sto scrivendo un libro, poiché offrono una maniera più profonda per esprimersi, con maggior precisione e caratterizzazione personale».
La carta stampata sparirà?
«Non credo che sparirà mai del tutto, i libri continuano a esistere anche se in numero minore: trovo che abbiano un aspetto romantico ed esprimano bellezza, una qualità importante perché l’essere umano, fortunatamente, non è solo guidato dal pragmatismo.
Forse accadrà quello che è successo ai cavalli quando sono arrivate le automobili: non sono scomparsi, ma sono rimasti in un ambito molto esclusivo, per la loro bellezza. Da giovane leggevo il giornale e ancora ora mi piace farlo, apprezzo la sensazione di toccarlo, il suo odore.
Certo si può leggere tutto sul telefono o sul tablet, ma è come se l’informazione fosse meno duratura, senza dimenticare che la lettura della carta stampata favorisce il rallentamento dei ritmi. Penso che il futuro del cartaceo sia il coffee table book o il collezionismo, perché una libreria con le opere che si amano introduce stile ed eleganza nella nostra quotidianità».
Cosa fa un “Bravo” comunicatore?
«Non amo valutare i risultati del mio lavoro, questo lo lascio agli altri. Posso però descrivere il ruolo del comunicatore: non è essere al centro dell’attenzione, anche se per competenze è il più esperto nello scegliere come raccontare una storia, ma un messaggio proveniente da chi ha realizzato un progetto è molto più forte e credibile. Il ruolo del comunicatore è quello di accompagnare queste persone per raccontarlo nel modo migliore. Inoltre, un buon comunicatore sa giocare in squadra».
Quali sono stati i passaggi più significativi dell’esperienza in Lamborghini?
«Lamborghini è un marchio innovativo, i suoi brand values sono brave, unexpected e authentic. Mi riconosco in questa attitudine e fin da subito mi è stato chiaro che l’innovazione si comunica con l’innovazione, la tecnologia con la tecnologia: se c’è coerenza tra messaggio e modo in cui lo si comunica si è molto più credibili. Dal mio arrivo la squadra è raddoppiata, e io me ne sento parte.
Sono orgoglioso di lavorare per questa azienda in un periodo molto complesso, di trasformazione tecnologica sia del prodotto sia del modo di comunicare. Sono consapevole che ogni cambiamento parte dalla testa delle persone e del loro modo di agire, e ho iniziato a lavorare su questo.
Ora vedo la squadra più coerente con il nostro tempo: infatti continuiamo a essere il numero uno nel nostro segmento per comunicazione sui social aziendali. Una particolare soddisfazione è riservata alla qualità dei video che produciamo, spesso con risorse limitate, e alle esperienze che offriamo ai giornalisti: per me il lusso non è un hotel cinque stelle o un ristorante stellato, ma dare un servizio unico e personalizzato, essere disponibili, educati ed eleganti come persone.
Trattare tutti senza arroganza, cosa che può accadere se si lavora nel lusso, poiché si rischia di sentirsi migliori di altri. Credo che l’attitudine sia determinante per definire la direzione della comunicazione: io non mi sento mai “arrivato”. Pur soddisfatto dei traguardi raggiunti, non credo che il successo si consolidi ripetendo ciò che ha funzionato, ma piuttosto avendo sempre fame di andare oltre.
La nostra sfida è non fermarsi quando si crede di aver imparato bene qualcosa, perché è in quel momento che si parte per una nuova avventura in evoluzione costante. Pensando al recente passato, abbiamo inserito negli eventi di presentazione e prova prodotto momenti di esperienza con la realtà virtuale, aumentata o mista, e offriamo sempre un digital studio in cui è possibile registrare i propri contenuti, fonderli ai materiali virtuali che offriamo e editare quasi in tempo reale il video finale».
Quali sono i progetti che hai per l’immediato futuro?
«Siamo sempre connessi e quindi abbiamo tantissimi dati che però non sfruttiamo; quindi, avere un approccio data based è una mia aspirazione. Creare un vero data lake che includa non solo i dati della comunicazione ma anche dei clienti, dell’industria e della società, per non decidere solo con la pancia ma basandosi anche su una strategia analitica.
In questo progetto avrà ovviamente una parte rilevante l’applicazione dell’intelligenza artificiale, e sono curioso di scoprire le applicazioni future, fermo restando che la considero una nostra estensione, che non rimpiazzerà ma migliorerà ciò che facciamo».
Ci sono lezioni che hai imparato e che applichi nel presente?
«Sicuramente molte, ne cito una tra le più significative: quando ho iniziato il mio lavoro in Bugatti mi sono reso conto che nella comunicazione le semplici parole possono avere un impatto molto forte. Per pochi anni la Bugatti, con sede in Francia, è tornata in Italia a Campogalliano, ma questa parte della storia era praticamente scomparsa dalla narrazione ufficiale.
Decisi di reintrodurla, e le persone che avevano vissuto quei momenti hanno vissuto questo ricordo recuperato con grande emozione e partecipazione. In particolare, ricordo la lettera scritta a mano da Romano Artioli, presidente di Bugatti Automobili dal 1990 al 1996, in cui mi ringraziava sottolineando che la penna ferisce più della spada, nel bene e nel male.
Questo mi ha portato a una profonda riflessione sul peso delle parole, poiché arrivano al cuore delle persone. Mi sono anche reso conto che spesso fatti che noi consideriamo parte della normalità, se correttamente narrati e valorizzati, diventano una storia unica capace di emozionare e coinvolgere chi non appartiene al mondo che stiamo raccontando».