Università e imprese: sinergia vincente
L’Emilia-Romagna eccelle nell’innovazione grazie a università, Tecnopoli, Cluster e sinergie tra ricerca, imprese e istituzioni, puntando su Industria 4.0. Vediamolo insieme a Cesare Stefanelli, direttore del dipartimento di Ingegneria e prorettore alla trasformazione digitale dell’Università di Ferrara
L’Emilia-Romagna ha una vocazione all’innovazione universalmente riconosciuta. Un ruolo importante nella costruzione di questo ecosistema è svolto dalle università del territorio, capaci di dialogare con gli attori pubblici e privati, nella costruzione di una rete regionale, su cui si innestano con successo progetti, percorsi e iniziative specifiche. Ne parliamo con il professor Cesare Stefanelli, direttore dipartimento di Ingegneria e prorettore alla trasformazione digitale dell’Università di Ferrara.
Quali sono i punti di forza del territorio, che hanno permesso di far nascere e crescere questa vocazione?
«Sicuramente c’è un aspetto culturale. In Emilia-Romagna possiamo contare su personale tecnico estremamente formato e pronto ad aiutare le aziende a innovare. Siamo in piena rivoluzione Industria 4.0 e il nostro tessuto regionale è prevalentemente manifatturiero, tra i più importanti a livello nazionale. Negli ultimi anni è emerso un disperato bisogno di innovare per restare competitivi su scala globale.
Negli ultimi vent’anni ho osservato un grande sforzo da parte della Regione Emilia-Romagna e delle università per avvicinare il mondo delle imprese alla ricerca industriale che si fa negli atenei. Questo sforzo si è concretizzato, ad esempio, nei Tecnopoli, nati circa 10-15 anni fa. Questi hanno aiutato le aziende a trovare sia competenze sia personale tecnico formato. Gli atenei della regione formano giovani ingegneri e tecnici specializzati sulle tecnologie innovative richieste dalle aziende. Inoltre, c’è un buon livello di collaborazione tra università e imprese, anche attraverso le reti di alta tecnologia e i Cluster, che funzionano piuttosto bene in Emilia-Romagna».
Ha parlato dei Cluster, in cosa si differenziano dai Tecnopoli e qual è il loro punto di forza?
«I Tecnopoli rappresentano laboratori industriali e universitari che ospitano decine di ricercatori. Sono luoghi fisici dove si sviluppa la ricerca applicata e si crea un contatto diretto tra aziende e università. I Cluster sono strutture più leggere, di incontro e di networking. Questi strumenti hanno avuto successo perché si basano su una visione condivisa e sulla collaborazione tra più attori. Sono strettamente collegati alla Regione e ad ART-ER e si propongono di fornire linee di indirizzo».
Se volessimo provare a tirare fuori la formula vincente, per replicare il modello Emilia-Romagna, come la descriverebbe?
«Difficile dare una risposta completa e autorevole. Basandomi sulla mia esperienza e dal punto di vista del mio osservatorio universitario, credo che uno dei fattori chiave sia la presenza di un ecosistema fertile, in cui università, associazioni datoriale e istituzioni collaborano in modo proficuo. Questo permette alle buone idee di attecchire e crescere.
Penso ad esempio a una figura visionaria come Patrizio Bianchi, che è stato mio rettore a Ferrara: il suo ruolo è stato fondamentale nel dare impulso al Tecnopolo Big Data che c’è in Manifattura Tabacchi a Bologna. Ma se non ci fosse un contesto recettivo, le buone idee da sole non basterebbero. Un altro esempio è quello del Centro di competenze Industria 4.0, che si chiama BI-REX, che fa parte dei centri di competenze fatti partire sei o sette anni fa dal Mise in tutta Italia. BI-REX si è particolarmente distinto per i risultati ottenuti, sempre grazie a questo mix vincente: persone di valore ed ecosistema in grado di sostenere le buone idee.
Quindi, tornando alla formula vincente, credo che sia proprio questo terreno fertile, in grado di accogliere i semi e farli crescere. Poi, ci vuole sempre qualcuno che pianti il seme».
Come si concilia la formazione universitaria con la ricerca applicata e la collaborazione industriale?
«Nel nostro dipartimento, la sinergia con il sistema industriale è fondamentale. Gli ingegneri tendono per natura a essere concreti e, grazie alla relazione con le imprese, riusciamo ad aggiornare i percorsi di studio per mantenerli all’avanguardia. Le aziende ci indicano quali tecnologie sono di maggiore interesse, mentre noi offriamo loro competenze e progetti di ricerca collaborativa.
Questo approccio è vantaggioso anche per noi, perché ci consente di ottenere finanziamenti, assumere giovani ricercatori e portare avanti progetti innovativi, nonostante le difficoltà legate al sottofinanziamento dell’università italiana. E non ha mancano di darci alcune soddisfazioni: ad esempio, abbiamo depositato tanti brevetti, che senza il contributo delle aziende non avremmo realizzato.
Senza dimenticare il ruolo delle aziende come fonte di finanziamento importante per i nostri Atenei: con un finanziamento statale per l’università che, come minimo, non cresce, il dipartimento di Ingegneria riesce a ottenere una fonte di ricavi importante attraverso queste collaborazioni e questo ci permette di assumere nuovi giovani ricercatori, dando vita a un circolo virtuoso. Questo discorso di scambio vale soprattutto con le aziende medio-grandi, solide, con una buona disponibilità economica e la possibilità di investire, anche cifre importanti, in ricerca e sviluppo».
Nel nostro paese, però, le piccole e medie imprese (Pmi) rappresentano un tessuto fondamentale del sistema economico. Come si può supportare il loro processo di innovazione?
«Facciamo decisamente più fatica ad aiutare le Pmi, spesso non hanno le risorse per finanziare la ricerca industriale. Però, possono beneficiare dell’appartenenza a filiere guidate da grandi aziende, a cui possono essere da supporto. In Emilia-Romagna abbiamo realtà importanti come Sacmi, Ima, Coesia e Carpigiani, che fungono da traino per l’intero ecosistema».
Altro tema delicato è quello delle start up, su cui in Italia abbiamo ancora molto da lavorare. Qual è la situazione in Emilia-Romagna?
«Secondo me abbiamo un ottimo ecosistema per le aziende, ma quello delle start up, in generale in Italia, non solo in Emilia-Romagna, invece fa molta fatica. Non mancano giovani con idee brillanti e spirito imprenditoriale, ma manca il terreno fertile per far crescere le idee. SI incontrano difficoltà nel reperire finanziamenti, ci si scontra con una complessità burocratica spesso scoraggiante.
In Emilia-Romagna, la Regione cerca di sostenere le start up con bandi e iniziative, ma manca un elemento fondamentale: la massa critica. La frammentazione degli incubatori, che sono troppo numerosi e spesso isolati, non favorisce l’incontro tra idee diverse e il confronto con un mercato più ampio».
Quali sarebbero, le condizioni ideali per favorire la crescita delle start-up?
«L’innovazione nasce dall’incontro tra persone con idee diverse. Negli Stati Uniti, gli incubatori sono concentrati in grandi università come Stanford o Berkeley, dove c’è una massa critica di talenti. In Italia, invece, la logica è quella del campanilismo, con troppi incubatori piccoli e isolati.
Per migliorare, sarebbe necessario creare pochi hub di grandi dimensioni, capaci di attrarre competenze diverse e offrire un contesto fertile per lo scambio di idee e lo sviluppo delle start up. Le start up che ho visto crescere nel campus scientifico-tecnologico di Ferrara sono nate dall’incontro tra ragazzi che si sono conosciuti sui banchi dell’università e hanno deciso di tentare l’avventura insieme.
Nel nostro piccolo, abbiamo favorito l’incontro tra le persone e le idee. Questo processo andrebbe replicato in scala, moltiplicato per 10 o per 100. Se si creano tante piccole realtà, il dialogo è spezzettato. Poi, guardando agli Stati Uniti, dal punto di vista tecnologico, la California è 5, 10 anni avanti a noi. E allora, se uno deve lanciare una start up in campo informatico, l’aria che respira là è l’aria del futuro ed è difficile trattenerli in Italia».